Venezia. Giusto alla fine del 1541, in data 28 dicembre, Lorenzo Lotto registrava sul suo Libro di spese diverse l'accordo stipulato "con li homini de Sedrina, mercanti de vin su la Riva del Ferro, bergamaschi" per una pala d'altare ad olio su tela, annotando scrupolosamente le caratteristiche tecniche dell'opera da eseguire: alta nove piedi e larga sei, contenente cinque figure, per un compenso di cinquanta scudi d'oro. Benché residenti ed attivi nella città lagunare, i mercanti di vino menzionato da Lotto erano riuniti nella Confraternita di Santa Maria, un pio sodalizio a statuto misto (di mestiere e di "nazione") legato a Sedrina da antichi vincoli affettivi; anzi letteralmente diviso tra Venezia e Sedrina, sede dell'unica filiale del gruppo. Il quadro commissionato a Lotto era destinato alla chiesa di San Giacomo, parrocchiale del piccolo centro della Valle Brembana; realizzato a Venezia nella prima metà del 1542 ­ al pittore il conto venne saldato il 5 agosto di quell'anno ­ fu inviato a Sedrina e collocato sull'altare a destra del maggiore, eretto per tempo a spese della Confraternita.


La scelta dell'artista su Lotto obbligatoriamente: e non perché ai modesti mercanti di origine bergamasca fosse preclusa, in via assoluta, la possibilità di ricorrere ai servizi di Tiziano, il prediletto delle corti e dell'imperatore. Sarebbe bastato cogliere il momento giusto, rispettare i tempi e gli impegni del famoso pittore, sborsare ­ questo è certo ­ qualche scudo in più. Ma Lorenzo Lotto era una vera e propia gloria bergamasca. Stabilitosi a Bergamo tra il 1513 e il 1525, egli aveva costellato la città e il territorio di capolavori, conquistando giusta fama un volta per tutte; conquistandola ai confini della repubblica, lui che pure era nato a Venezia città, ma col risultato che lì ­ almeno ­ il linguaggio pittorico alla moda era il suo. Ci si era abituati alla mimica dei suoi personaggi sacri, si era imparato ad intenderla ala volo; per sfoggiare sull'altare di famiglia o a casa propria un'opera degna di considerazione, e per farsi capire, bisognava rivolgersi a lui. Era Lotto, non Tiziano, l'artista che faceva al caso dei mercanti di Sedrina, benché fossero passati quasi vent'anni dal fortunato soggiorno bergamasco del pittore.

L'eccellente paternità non è valsa a riscattare la pala dall'isolamento geografico e, soprattutto, da quello culturale. La storia materiale del quadro è poca cosa: lunghi secoli di permanenza nella parrocchiale di San Giacomo, accumuli di patine, restauri sedicenti e restauri veri. A movimentarla intervenne, nel 1984, un furto rocambolesco attuato con mezzi di fortuna (scale a pioli, spallate alle porte, tovaglie d'altare per mimetizzare e proteggere la refurtiva); l'insperato recupero fu annunciato alla popolazione ­ con encomiabile tempestività ­ a suon di campane, in piena notte.


Nell'ambito della vasta bibliografia lottesca la pala non ha trovato che scarne menzioni; conta rarissime riproduzioni, e tutte in bianco e nero, ad onta degli splendidi colori emersi dall'ultimo restauro (1975); viene costantemente relegata dalla critica tra la produzione matura o minore dell'artista, dove matura o minore vuol dire: non curata, non inspirata. Eppure basta l'occhio meno esperto per capire che questo è un quadro di impegno, che il pittore non poteva tirar via; un quadro di grandi dimensioni (tre metri per due), dove Lotto ha apposto la sua firma ("Laurentio Lotto", in basso a sinistra) e ha chiaramente indicato committenza e datazione ("Hoc hopus fecit fieri fraternitas Sancte Marie de Sedrina MDXXXXII", in basso a destra). Un quadro ufficiale, insomma, sebbene destinato a una chiesetta di provincia; non geniale quanto le opere degli anni Dieci e Venti, non abilmente strutturato quanto la contemporanea Elemosina di Sant'Antonino per la chiesa veneziana dei SS. Giovanni e Paolo, ma col merito di parlare un linguaggio chiaro, immediatamente comprensibile sia per i provinciali abitanti di Sedrina, sia per il visitatore di oggi, "provinciale" ­ suo malgrado ­ rispetto alla cultura e ai codici di comunicazione del '500.

Il dipinto rappresenta una Madonna con il Bambino in gloria e i Santi Giovanni Battista, Francesco, Girolamo e Giuseppe. La Vergine appare su un portentoso trono di nubi, cui il pittore ha destinato la parte superiore della tela; pur irradiando luce sovrannaturale, le nubi calano a quota così bassa che ai quattro santi quasi non riesce di sollevare il capo. Maria è coronata da sette faccine angeliche, abbigliata di rosso e di blu; la sua destra sostiene appena, con tocco leggero, il Bambino; la sinistra stringe un pomo. Si sporge dall'alto sollecita, nell'atto di prestare attenzione; ma lo sguardo le rimane muto, chiuso in se stesso: turbato, persino. Il Bambino, in equilibrio sul ginocchio rialzato della Vergine, si mostra pieno di iniziativa; solleva una delle manine nel tradizionale gesto di benedizione e tende l'altra, palmo aperto, sul pomo impugnato dalla madre, senza sfiorarlo. Giovanni Battista, Francesco, Girolamo e Giuseppe sono disposti a semicerchio tra due ali di mura imponenti; il pavimento a lastroni che reca la firma di Lotto ­ e sul quale tutti e quattro muovono d'istinto un passo in avanti ­ cede bruscamente posto a una verde vallata digradante sul fondo. Laggiù scorre un fiume solcato da un ponte e pascolano pecore sorvegliate da pastori solerti; più oltre, su una piccola cresta, si erge persino un paesello con la sua chiesa ben in vista.

L'attenzione dei santi è concentrata sulla Vergine: e ciascuno la implora come sa. Per comodità, forse nel timore di non riuscire abbastanza persuasivo, Giovanni ha appoggiato la croce alla spalla e tende entrambe le palme all'esterno, accompagnando il gesto, eloquente di per sé, con uno sguardo accorato. L'agnello, compagno nonché attributo iconografico del Battista, se ne sta accovacciato quietamente ai suoi piedi. Francesco è a mani giunte, con il volto supplichevole oscurato dalle nubi incombenti; veste il semplice saio che mostra, all'altezza del costato, lo squarcio netto della ferita ricevuta sulla Verna. Girolamo ha smesso i ricchi panni da Cardinale (mai indossati nella realtà storica ma sfoggiati spesso nella finzione iconografica) per vestire quelli del penitente: il prezioso cappello gli fa capolino tra i piedi, negligentemente abbandonato a terra; la croce e il sasso con cui percuote il petto, tenuti in bella vista, ribadiscono il mutamento d'abito e di vita. Sembra che l'apparizione divina lo lasci esterrefatto: la bocca gli si spalanca in un moto di sorpresa tra i bei riccioli della barba canuta. E tanta è la stupefazione che probabilmente neppure s'accorge di doppiare il gesto di Maria: le sue dita sono strette intorno al sasso, quelle di lei, poco più in alto, attorno al frutto. A Giuseppe ­ riconoscibile per l'intera gamma di attributi solitamente conferitigli: il bastone, la verga fiorita, la colomba che gli plana alle spalle ­ basta un mano (sia pure ben larga e tesa) per essere convincente; rispetto al Battista egli può vantare con Maria, in qualità di sposo, ben altra dimestichezza.

"L'apparizione della Vergine nella pala è perlomeno ovvia, stante la titolazione di Maria della Confraternita committente; tutta da motivare è invece la presenza di Giovanni, Francesco, Girolamo e Giuseppe. Perché i mercanti sedrinesi scelsero questi tra i molti santi che popolano l'empireo cristiano? Qual è il ruolo loro affidato all'interno del dipinto? Fatta eccezione per Giuseppe, gli altri ­ colmato nella finzione pittorica lo iato cronologico tra le singole avventure terrene ­ sono qui a rammentare allo spettatore, per forza d'esempio, la passione di Cristo. Giovanni annuncia l'arrivo del Messia: ovvero la redenzione dell'uomo e l'avvio di un'era nuova. Ma redenzione ed era nuova sono vincolate entrambe, come ben si sa, all'immolazione del Messia annunciato; pertanto quella del Battista è una profezia di vita/morte, pagata, per di più, col martirio personale. La croce di cui il santo si fregia nei dipinti indica il rapporto simbiotico che lo lega, in quanto Precursore, al Salvatore; e Lotto l'ha voluta particolarmente prepotente e ingombrante, perché lo spettatore non potesse ignorarla. Girolamo è un dottore della Chiesa: esegeta e traduttore (dall'ebraico al latino) della Sacra Scrittura. La tradizione figurativa lo mostra spesso intento alla lettura e alla meditazione dei testi in cui è narrato il mistero del Dio fatto uomo e ucciso per la salvezza dell'uomo. Ma dopo aver compreso con la mente egli sceglie di comprendere nel corpo, rivivendo la sofferenza di Cristo con il ritiro dal mondo, la penitenza e la macerazione. Il sasso che Lotto pone nella mano di Girolamo è lo strumento di una piccola passione, esemplata però su quella divina: la croce "portatile" che il santo ha con sé testimonia una volontà di imitazione senza riserva. Francesco accetta nella propria carne il rinnovarsi delle piaghe del Messia; è il Cristo moderno, il santo per il quale l'imitazione diviene, infine, identificazione. E non è un caso che l'ombra delle nubi su cui siede la Vergine si addensi sul volto di Francesco: è al destino di morte e resurrezione che attende il piccolo Gesù (destino di resurrezione: ma intanto di morte) che l'ombra allude, minacciosa.

Di questo destino annunciato il Bambino dipinto da Lotto sembra avere piena coscienza, tanto più che la madre stringe tra le dita il frutto, simbolo della sua futura, dolorosa passione. Ma lungi dal rimanere confuso e dal cercare rifugio nel seno materno ­ come pure accade in molti quadri di devozione quattro-cinquecenteschi ­ Gesù si svincola arditamente dalla presa malferma di Maria, impartendo, con estrema padronanza, la benedizione che si confà ad un Cristo ormai adulto. Nel contempo stende il palmo sopra il pomo premonitore, lasciando però che sia la madre a impugnarlo: accordandole il permesso di quel gesto e delegandole tutta la responsabilità che esso comporta. Lotto, cui per mestiere spetta la comunicazione di concetti in forma visiva, trova/crea quest'espediente per dire, né più né meno, che Cristo rende la Madonna partecipe della sua passione; che la investe del difficile ruolo di co-redentrice. Tra la fine del '400 e la prima metà del '500 il concorso della Vergine alla missione salvifica di Cristo è la maggiore tra le rivendicazione della dottrina mariana. Poiché al momento dell'olocausto madre e figlio soffrono in modo egualmente lacerante (benché l'una nel corpo e l'altra nello spirito), ella partecipa di fatto e di diritto alla redenzione dell'uomo; dunque non solo è in grado di mediare al figlio le richieste di grazia, ma può dispensare la grazia proprio come fa lui; col potere che le deriva dalla con-passione, dalla passione condivisa. E' un'investitura dolorosa, che la Madonna di Lotto accoglie con quel tanto di umano, giustificabile straniamento che le traspare dallo sguardo; ma le dita strette attorno al frutto parlano da sole di un'accettazione incondizionata. Sotto di lei, oltre le nubi, Girolamo accetta nel sasso la mortificazione del corpo che conduce alla salvezza dell'anima: raffigurando due volte il medesimo gesto il pittore pone l'accento su una scelta comportamentale ­ il totale consenso al volere della divinità ­ che può essere istruttiva per chi osserva il quadro. Questa Vergine co-redentrice è estremamente potente: ecco perché Giovanni Battista e Giuseppe (chiamato in causa come mediatore eccellente, in quanto sposo e padre, parte integrante della famiglia divina) le rivolgono appassionate richieste di intervento e protezione. A dire il vero non uno tra i santi lesina il suo impegno, anzi: convergendo a semicerchio, con un piede avanzato rispetto all'altro, i quattro letteralmente con-corrono ad implorare Maria, rafforzando con l'unione la personale capacità intercessoria. Essi si adoperano con zelo innegabile; ma in favore di chi? In prima battuta, naturalmente, di chiunque si avvicini al dipinto; del devoto, nell'accezione generale del termine. Dallo spazio virtuale della tela le braccia tese del Battista e di Giuseppe puntano allo spazio reale dello spettatore, per convogliare lì l'attenzione e la premura della divinità. Questo livello elementare di lettura è applicabile a qualunque immagine sacra. Ma dietro l'immagine qualunque bisogna rinvenire le motivazioni, particolari e circostanziate, della committenza: che si è previamente accordata con il pittore su forme e contenuti, perché l'opera esprima quel che si intende farle esprimere e sia funzionale ai bisogni di chi la paga.

Il dipinto di Lotto era stato concepito per l'altare privato della Confraternita : dunque la protezione della Vergine era destinata innanzitutto ai membri del sodalizio, con un occhio di riguardo per quelli della filiale sedrinese, cui era presumibilmente affidata, assieme alle forniture e ai traffici nell'entroterra, la cura dell'altare. A Maria si chiedeva di vegliare sulla buona condotta delle anime e , naturalmente, sul buon andamento degli affari. Benché il quadro non fornisca appigli per individuare il mestiere dei committenti, l'elemento base dei loro commerci è sapientemente celato sotto metafora. Come si è visto in precedenza, ai mercanti di vino stava a cuore che la pala alludesse alla Passione, cioè al sacrificio del Sangue: sulla mensa rituale non è forse il vino prodotto dall'uomo a trasformarsi nel sangue di Cristo? Lungi dal rimanere confinata nell'ambito della Confraternita, la protezione divina doveva estendersi, nelle intenzione della committenza, sull'intera popolazione sedrinese: è l'inserimento del paesaggio a suggerirlo. Il paesello schizzato da Lotto sul fondale è la cinquecentesca Sedrina, con le sue poche case e, naturalmente, la chiesa parrocchiale di San Giacomo; il gregge di pecore sorvegliate dai pastori prudenti ­ che corrono e si sbracciano per tenerle sotto controllo ­ rappresenta, in metafora, la locale comunità di fedeli ben governata da religiosi avveduti. Si tratta di un attestato di fiducia per il clero sedrinese che, dietro adeguato compenso, celebrava messa sull'altare del sodalizio; e di un onore speciale reso dagli emigranti ai propri concittadini. Entrando in chiesa a pregare ciascuno do essi vedeva la Vergine Maria apparire proprio nel cielo di Sedrina: e ne usciva quantomeno confortato. Nel dipinto del Lotto c'è però un'ulteriore e sottile implicazione di senso; per comprenderla basta una veloce incursione nel rituale civico della Serenissima. L'origine di Venezia (421 d.C.) era tradizionalmente riferita al venticinquesimo giorno del mese di marzo, ricorrenza dell'Annunciazione. Sul territorio della Repubblica la festa religiosa aveva, da sempre, una connotazione politica. Incarnazione di Cristo e posa della prima pietra coincidevano esattamente; la Vergine, che all'annuncio di Gabriele concepisce nel grembo una nuova vita, era automaticamente assimilata alla città che, appena fondata, già reca in sé il potenziale, futuro sviluppo. Nell'immaginario pubblico ­ sapientemente indirizzato dal potere costituito ­ Maria simboleggiava Venezia; era Venezia. Le immagini sacre concepite in area veneta giocano spesso, e a carte scoperte, su questa doppia identità. L'equivalenza Maria-Venezia era scontata per ogni suddito della Repubblica: commissionando una Madonna in gloria in asse con una veduta di Sedrina, i mercabti di vino sapevano di porre la terra d'origine sotto la protezione di Maria, patrona del loro sodalizio, e di Venezia, signora di Bergamo e del bergamasco. Il quadro doveva attestare, non ultime, la fedeltà e l'ortodossia politica di questi provinciali: non a caso la minuscola vallata percorsa dal fiume è racchiusa, come in una nicchia, tra le gigantesche mura che fungono da quinte prospettiche. Tali mura, alte ancor più delle nubi ­ se ne intravede forse la sommità? ­ non sono state costruite da mani d'uomo. Celebrano visivamente una delle qualità della Madonna, che le litanie equiparano a città fortificata, a fortezza inespugnabile; e rappresentano, nella più ovvia e diplomatica delle metafore, la solidità e la potenza ­ quasi miracolose ­ di Venezia.


Ultimo aggiornamento

28/11/2019, 14:14

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